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Caduti

del mare

 

 

La vicenda di Mario Costantini

da “Pescatori del Cerrano –

 Racconti a tavola in un giorno

di festa” di Enzo Corini

Edizioni Qui Roseto - 2005

 

 

Erano anni che Mario Costantini, un pescatore di Pescara, cercava di potersi imbarcare sulle navi della Genepesca. Dico di Pescara, perché nonostante risiedesse da diversi anni a Giulianova, dove si era sposato, non era riuscito a perdere il suo accento pescarese.

Mario sapeva di essere un bravo pescatore, ma con quattro figli in tenera età da tirar su, era veramente difficile poter andare avanti con la misera paga che riusciva a racimolare sui pescherecci locali. Le aveva provate tutte per potersi imbarcare sulle navi della Genepesca. Neanche le raccomandazioni avevano sortito effetto. Si era anche presentato due tre volte a Calambrone, davanti a quei maledetti cancelli nella speranza di poterli varcare, ma era sempre tornato a casa più povero e con più problemi di prima. Aveva perciò smesso di cercare quell'imbarco e si era dedicato anima e corpo al suo lavoro. Quando tornava dalla pesca andava a vendere il pesce, cercava in tutti i modi di guadagna­re qualche soldo in più. Non stava mai fermo. L’importante per lui era non veder piangere i suoi bimbi per il freddo o per la fame. Accadeva anche questo nelle famiglie dei pescatori negli anni dell'immediato dopoguerra. Poi, come si dice, a volte può capitare un colpo di fortuna.

Quell'estate del 1947, a fianco alla casa di Mario, venne a villeggiare una famiglia di Livorno. Persone molto a modo, con un bambino d'una decina d'anni dall'aspetto smunto e malaticcio. Il bambino rifiutava il cibo, i genitori avevano consultato i più illustri professori, ma nessuno aveva saputo diagnosticare che malattia avesse. Un bel giorno, di ritorno dal mare, il bambino si presentò a casa di Mario durante l'ora di pranzo; silenzioso e vergognoso si affacciò all'uscio e restò fermo a guardarli mangiare.

La Moglie di Mario gli sorrise, lo prese per mano e lo fece accomodare a tavola. Gli diede un piatto e una forchetta, tolse dal suo piatto e da quello di Mario alcune forchettate di maccheroni fumanti e li servì al ragazzo. Sorridendogli allegramente gli scompigliò i capelli biondi e gli disse: "Mangia, che mi sembri un fiorellino appassito, tieni, prendi anche questo pezzo di pane." Il bambino, senza farselo ripetere iniziò a mangiare. Ridendo, Mario disse alla moglie:" Magari i genitori avranno tanti soldi, ma come cucini tu non ci sono soldi che tengano". Stavano ancora ridendo quando udirono la mamma del bambino che preoccupata chiamava il figlio. Vera si affacciò alla porta e disse alla signora che il bimbo era in casa loro e stava mangiando due maccheroni con un po' di pesce.

La signora si avvicinò all'uscio e Vera gli fece cenno d'entrare. Sorridente e un po' vergognosa la signora chiese scusa per il bambino, ma quando vide suo figlio mangiare con gusto corse fuori e chiamo il marito: "Vieni Alfredo, vieni a vedere Alessio come mangia:' Il marito accorse e, nel vedere suo figlio mangiare con gusto senza che qualcuno a forza lo imboccasse per nutrirlo, abbracciò quasi commosso la moglie.

Quell'estate a casa di Mario non mancò mai il cibo, il professore e la signora, come li chiamavano Vera e Mario, vollero che Vera cucinasse per loro. Il professore era preside in un liceo di Livorno e sua moglie insegnava lettere e filosofia in un altro liceo, sempre a Livorno. Restarono a Giulianova fino alla fine di settembre e partirono con la promessa di far imbarcare Mario sui pescherecci della Genepesca. Volevano che l'intera famiglia si trasferisse a Livorno dove Vera avrebbe cucinato per loro. A tale scopo, avrebbero fatto approntare un'ala della loro grande casa per ospitare la famiglia di Mario. Come promesso verso la fine di gennaio Mario ricevette un telegramma da Livorno e finalmente riuscì a varcare i cancelli che gli erano stati preclusi per tanti anni.

Quel giorno di marzo del 1948, con una maretta al mascone di dritta, tra un monotono rollio e un altrettanto monotono beccheggio, il Genepesca I continuava la pesca tra le acque del mare del Labrador.

Un cielo plumbeo da vari giorni non aveva permesso la vista del sole, i marinai imperterriti continuavano il loro lavoro. La coperta era ancora piena di merluzzi quando il comandante diede ordine di salpare di nuovo la rete. La squadra dei marinai ormai giunta alla fine del proprio turno di lavoro, era stanca. Dopo aver finito le manovre di salpa e calate andati a riposare. Ributtarono la rete in mare, il comandante segnalò alla sala macchina avanti tutta. Quando i divergenti della rete andarono in forza, a quello di poppa restò impigliato un cavo di manovra chiamato maglietta. Capitava, a volte, e Mario sapeva come fare per districare il divergente. Quel giorno, forse per la fretta di finire la manovra e andare a dormire, invece di aiutarsi con una gaffa, per non perdere altro tempo, il marinaio salì sul divergente. Mentre tentava di sganciare il cavo, un colpo di mare sollevò il divergente, Mario perse l’equilibrio e finì in acqua: “Uomo in mare, uomo in mare!” urlarono in tre o quattro. Il comandante dall’aletta di dritta urlò all’allievo ufficiale: “Tutta la barra a dritta” e si precipitò ad aiutarlo a girare il timone.

Pronti a prora, e lungo la fiancata di dritta, i marinai con le cime in mano e i salvagente, attendevano che la nave si avvicinasse al marinaio che si dibatteva nelle acque gelide. Quando ormai erano quasi a tiro di cima, soprattutto quelli che stavano a prora, videro il marinaio smettere di dibattersi e, senza alcuna ambascia, colare a picco ingoiato dall’oceano. Solo il suo cappello di lana rimase a galla ad indicare il posto dove era affondato. Forse Mario era riuscito a togliersi gli stivaloni e forse si era tolto anche l’incerata, forse avrebbe anche potuto salvarsi se le acque non fossero state così gelide. Forse... Continuarono a calare la rete in quella zona nella speranza di recuperare il corpo, ma il mare non restituì nulla.

 

 

 

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