Paesi e borghi della provincia di Teramo - Persone :  Domenico "Mimì" Zizzi

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Domenico "Mimì" Zizzi

 

A settant’anni suonati (è nato nel 1941), Domenico “Mimì” Zizzi è un figlio di pescatori che difenderebbe con i denti quella che probabilmente è una delle case più antiche di Pescara: calcolatrice alla mano, è stata costruita a metà del 1800 dal bisnonno Biagio, nome tuttora tramandato di nipote in nipote, quando Pescara era ancora Borgo Marino, e a testimoniarlo c’è una cartolina di Castellamare Adriatico, dei primi del Novecento, in cui suo nonno Tommaso, figlio di Biagio, è immortalato con sua figlia Maria in braccio.

Fa tenerezza la casettina che con allegria naïve propone paesaggi marinari, conchiglie, stelle marine e madonnine, spezzando il colore asfalto dell’ex Borgo Marino. È qui che i pescatori pescaresi hanno mosso i primi passi: «Una volta tutti questi nomi di vie non esistevano, era tutto Borgo Marino e basta. I costruttori saranno la fine di tutto. Anche la mia famiglia ha scelto di vendere questa casa. Le amministrazioni hanno saputo preservare via delle Caserme ma non sono riusciti a salvare il cuore di Borgo Marino, che conserva le nostre origini. Il Borgo è nato perché le mogli sono riuscite ad incoraggiare, a dare supporto ai loro mariti. È che non ci sono più i vecchi pescatori, sennò un sacco di scempi non sarebbero accaduti».

In due stanze Mimì ha raccolto tutti i ricordi, le fotografie e gli oggetti che messi insieme fanno più di cent’anni: quella casa una volta era grande il doppio, ma non era raro che in poco spazio si vivesse anche in 12, dormendo con i piedi ai due capi dello stesso letto.

«Sessant’anni fa da qui al Comune era tutta campagna – racconta – a volte ci commissionavano di selezionare i vetri colorati da quelli normali, e noi ci riempivamo di tagli in cambio di quelle 10 lire che ci servivano per comprarci il fumetto di Tex. A quei tempi con 50 lire ci andavi in due persone a vedere i film al teatro Pomponi, che hanno abbattuto negli anni ’60. Per noi ragazzini c’erano poche occasioni di divertimento: alla festa della Madonna dei sette dolori, a Pescara colli, ci andavamo con un’allegria che non finiva mai! La festa durava due giorni, la domenica e il lunedì. La Madonna era “nostra” il lunedì, e la si andava a prendere a piedi, tra le viuzze, i cespugli, i canneti. Poi i nostri padri si mettevano in ginocchio all’entrata e non si alzavano fino a che non raggiungevano l’altare. Il percorso da fare fino alla Marina era pieno di lucciole, noi le prendevamo e le mettevamo nelle bottiglie e una volta in camera le mettevamo vicino al letto. A ripensarci adesso mi vergogno un po’: chissà quanto soffrivano quelle povere bestioline».

Il suo bisnonno Biagio e il nonno Tommaso sono nati e morti nella casetta in cui oggi Mimì passa «il suo tempo preferito». Qui dipinge, tiene in ordine e vende racchettoni, quelli che il falegname ormai ottantenne Dante Camplone fa ancora ogni tanto: «Sono quelli originali, grezzi – racconta – Fu il primo a pensare di venderli. E per me i racchettoni veri devono essere proprio così: non rifiniti, non identici l’uno all’altro». Suo padre Biagio cedette la casa ad un fratello e fece nascere e crescere i suoi figli, tra cui anche Mimì, ad un paio di isolati più in là.

Nel 1988 Mimì, ormai elettricista in pensione, se l’è ripresa: «La famiglia di mio zio l’aveva lasciata da una decina di anni. Io un giorno ci sono andato e ci ho trovato cumuli di immondizia e di siringhe. Persino un motorino parcheggiato. Allora ho detto: qua ci penso io». Dopo aver pulito, rassettato, pitturato, aggiustato, sostituito porte e finestre e lasciato la pavimentazione che ci ha messo suo nonno («prima ancora c’erano mattoni, ma tutto era all’insegna del decoro e della pulizia») Mimì custodisce questi ultimi ricordi come reliquie. Non dimentica i tempi in cui faceva il mozzo, e quasi si commuove ancora quando nella mente rivede un pescatore tornare dalla birreria vicino alla stazione con le scarpe in mano, ché i piedi, abituati a stare scalzi, facevano male. Lui ci ha perso un cugino carnale, in mare, erano quasi coetanei: a venti anni le onde si presero Adriano Zizzi e non ne restituirono più il corpo. Papà Biagio ha fatto poi il capopesca, perché una barca Tommaso Zizzi la vendette per comprare medicine per un altro figlio, Domenico, fratello di Maria, morto a 25 anni, di cui Mimì rinnova il nome.

«Una volta si stava in 7 pescatori su barchette piccole la metà di adesso, le reti erano pesanti da tirare a mano – continua – Si andava a mare tutti i giorni, anche le domeniche, tranne le feste comandate, come Ognissanti, Natale, Pasqua. E durante il cattivo tempo si andava sulla battigia a rincorrere le onde, per raccogliere la “cischia”, i cannolicchi e le paparazze lasciati dalla risacca. I nostri padri hanno sofferto molto, hanno conosciuto la vera fatica, gliela vedevi addosso. Da lontano dicevi: «E chi è quello così brutto, rugoso?», ed era un pescatore. Perché il sale ti mangia la faccia. Noi siamo orgogliosi di essere figli di pescatori perché se mancava qualcosa non te ne facevano mai accorgere. Ora invece non ci sono più i veri pescatori, sono quasi tutti armatori: i pescatori li fanno gli extracomunitari. Prima avevamo barchette che ci sembravano transatlantici, ora vedi transatlantici che sembrano barchette. Ma di cosa si lamentano? Oggi hanno termosifoni, radar, barometri; i pescatori di una volta dovevano capire da una nuvoletta all’orizzonte se il tempo sarebbe cambiato, e quando c’era la nebbia sai quante barche andavano alla deriva: dovevamo andare noi famigliari sul molo a fare rumore e ad accendere fuochi affinché capissero da che parte era la terra. E non sempre bastava. C’erano allora, i sacrifici, e non si era ripagati abbastanza per la fatica che si faceva».

Pescara: la casa della famiglia Zizzi destinata a scomparire

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Foto e testi di Cristina Mosca

(2011)

 

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